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Pillole di automotive

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Tipico caso di ribaltamento tripped rollover, quando ad una forza trasversale o longitudinale che agisce su un dato veicolo subentra un vincolo, l’auto punta ed innesca una giravolta. Non dovrebbe assolutamente accadere.

Tutto questo è la conseguenza di una serie di fattori che erroneamente si attribuiscono prevalentemente all’altezza di un’auto, tant’è vero che nei test di ribaltamento può avvenire nelle più svariate situazioni di guida.

Il ribaltamento dei veicoli è solo la conseguenza delle varie forze dinamiche che agiscono sul movimento del veicolo.

Uno dei test più appropriati che simulano questi eventi è il test dell’alce (moose test) dove si verifica a quale velocità un’auto diventa difficile da controllare. Ma può verificarsi anche in caso di testacoda o sovrasterzo di potenza, piuttosto frequente sulle auto a trazione posteriore. Anche per questo motivo negli ultimi anni la sicurezza delle auto cabrio è valutata nei test di rollover.

Questo tipo di fenomeno si suddivide in due ulteriori sottocategorie: ribaltamento con impuntamento, tripped rollover appunto, e senza impuntamento.

Nel primo caso avviene quando entra in gioco un fattore esterno alla vettura; il secondo, invece, untripped rollover, è dovuto principalmente al superamento dell’angolo massimo di inclinazione laterale.

Si generano queste differenze perché la tendenza al ribaltamento di un dato veicolo non è solo conseguenza dell’altezza da terra, ma del rapporto tra la larghezza e l’altezza del veicolo che definisce il Fattore Statico di Stabilità (SSF) legato a doppio filo al baricentro dell’auto.

SUV, pick up e furgoni trasporto merci hanno solitamente valori di SSF compresi tra 1,00 e 1,30, quindi rispetto alle auto berlina sono più propensi al ribaltamento.

Uno degli organi competenti che si occupano di monitorare questi fenomeni nel campo della ricerca e della sicurezza stradale è la National Highway Traffic Safety Administration (NHTSA).

Altri organi di controllo competenti in materia sono i test effettuati da Euro NCAP, organismo indipendente europeo per la valutazione della sicurezza dei veicoli, che offrono importanti informazioni per orientarsi nel mercato automobilistico.

Dai test Euro NCAP è possibile scoprire quali sono le vetture con il miglior livello di sicurezza, in grado di garantire una protezione elevata per i passeggeri adulti e per i bambini, con tecnologie anticollisione aggiornate per la prevenzione degli urti con gli utenti vulnerabili della strada.

Queste analisi sono utili per qualsiasi esigenza; gli enti, infatti, mettono alla prova i veicoli per stabilirne la sicurezza attiva e passiva, oltre alla protezione garantita in caso di incidente a tutti gli utenti della strada.

La sicurezza prima di tutto.

TecnicaPillole di automotive

Alcune volte nella frenesia di correre raggiungendo il posto di lavoro oppure andando al supermercato ci capita di vedere nelle nostre automobili degli elementi di cui noi sappiamo poco perché non ne conosciamo l’uso ma probabilmente sono molto funzionali.

Un qualsiasi elemento è funzionale quando risponde ad una funzione ben precisa.

Tutto questo può capitare anche con la nostra automobile che utilizziamo tutti i giorni…
A cosa serve questo, a cosa serve quello, perché è così?

Ad esempio, potrebbe essere accaduto a qualcuno di noi di domandarsi a che cosa servono quegli elementi in evidenza nel quadrato rosso, posizionati sul montante A vicino lo specchietto retrovisore. Precisamente si tratta di una BMW X1.

Quei due elementi si chiamano Nolder e non sono messi lì a caso, hanno una funzione ben precisa.

In quella zona probabilmente alle alte velocità si crea un canale convergente di aria (tra la calotta specchio e il montante A) che genera turbolenze che vanno ad investire i vetri laterali, rovinando il comfort acustico all’interno dell’abitacolo, meglio chiamato indice di articolazione.

Con questi Nolder il progettista in galleria del vento si è accorto del particolare non trascurabile e ha adottato questa soluzione, deviando leggermente il flusso di aria per evitare che investa l’abitacolo.

Perfetta l’integrazione tra l’aerodinamica e lo stile, tra la funzione e il disegno, perché i designer e gli aerodinamici in questo settore devono andare a braccetto. O meglio, spesso sono in contrasto ma poi si deve cercare una soluzione comune.

Chi studia una vettura deve cercare di migliorare ogni singolo comparto, senza lasciare nulla al caso. Pertanto anche il comfort acustico è importante. Immagina di trovarti alla guida della tua vettura premium in autostrada con la famiglia e la tua quiete viene disturbata da continui fruscii e turbolenze… Immagina su una vettura elettrica, dove l’assordante rumore del silenzio viene rotto da continui disturbi aerodinamici…

Come vedi, tutto corrisponde ad una funzione, in pillole.

 

Pillole di automotive

L’Italia, e in particolar modo l’Emilia Romagna, è considerata la terra dei motori, la cosiddetta “Motor Valley”. Infatti annovera nel suo territorio le più importanti realtà che tutto il mondo ci invidia, un patrimonio di indubbia qualità tecnica e storica. Quattro autodromi internazionali, sei centri di formazione specializzati, sei case costruttrici, tredici suggestivi musei, diciotto emozionanti collezioni, centinaia di squadre sportive che gareggiano in competizioni mondiali portando avanti il Made in Italy. Numeri da brivido solo a pensarci. Inoltre, dal 2017, è nata la “Motorvehicle University of Emilia Romagna” (MUNER); fortemente voluta dalla Regione Emilia Romagna, nasce dalla sinergia tra alcuni prestigiosi atenei (Università di Bologna, Università di Modena, Università di Reggio Emilia e Università di Parma) e le case automobilistiche che portano l’eccellenza del Made in Italy nel mondo, affondando le radici storiche nel territorio, con Advanced Automotive Engineering e Advanced Automotive Electronic Engineering. Motorvehicle University of Emilia-Romagna intende attrarre nella regione i migliori studenti universitari di tutto il mondo con l’obiettivo di formare e inserire nel mondo del lavoro gli ingegneri di domani, i professionisti che progetteranno veicoli stradali e da competizione, i sistemi di propulsione sostenibili e i sottosistemi per le funzionalità intelligenti e gli impianti di produzione all’insegna dell’Industria 4.0. Valorizzare il territorio e non solo le aziende coinvolte, questo è l’obiettivo. Tutto ciò per formare in casa i “talenti” di domani, preservando un patrimonio unico nel mondo. 

Ferrari, Maserati, Dallara, Pagani, Ducati e Lamborghini tra i marchi più rappresentativi dell’intera galassia dei motori. Apriamo un focus sull’ultimo: La Lamborghini è un’industria che si è occupata inizialmente di costruire trattori agricoli ed è stata fondata da Ferruccio Lamborghini, nato a Renazzo (Ferrara) il 28 Aprile 1916, figlio di agricoltori, studia tecnologie industriali a Bologna e la sua passione per le auto e la meccanica lo porta a lavorare in un’azienda che revisiona automezzi dell’esercito. Nel 1946 esplode il mercato dei trattori in Italia e Ferruccio Lamborghini decide di intraprendere la carriera imprenditoriale nella costruzione di macchine agricole, fondando quindi la Lamborghini Trattori. L’origine del logo della sua azienda è legata al fatto che la sua data di nascita, il 28 Aprile appunto, nello zodiacale cade sotto il segno del Toro. Inoltre lui amava la corrida e il Toro era quindi il simbolo perfetto. Solo tre anni dopo la guerra, l’azienda Lamborghini era capace di progettare e costruire da sola i suoi trattori e già nel corso degli anni cinquanta e sessanta la Lamborghini Trattori diventa una delle più importanti aziende costruttrici di macchine agricole in Italia. Nonostante i numerosi successi in campo imprenditoriale, la passione per l’automobile non abbandona mai Ferruccio, tanto da fargli acquistare molte auto sportive, tra cui anche la sportiva per eccellenza: era infatti amante delle Ferrari, altro patrimonio dell’ Emilia Romagna. 

La storia narra che dopo numerose auto acquistate, Lamborghini in persona si recava spesso e volentieri a parlare con Enzo Ferrari; era infatti il cliente più importante della casa di Maranello, finché un giorno, dopo aver portato per l’ennesima volta a riparare la sua Ferrari 250 GT, nacque una discussione molto accesa tra i due. Ferrari insinuò: “Lei probabilmente saprà guidare molto bene i trattori, ma non saprà mai guidare una Ferrari.” 

La questione era piuttosto semplice: Lamborghini, capendone di motori, non era completamente soddisfatto del funzionamento della trasmissione della sua vettura e credendo di offrire un contributo che sarebbe stato apprezzato, si rivolse all’ex pilota e fondatore della scuderia di Maranello dispensando alcuni consigli su come migliorare l’automobile per eccellenza, ma probabilmente non era consapevole di chi aveva davanti, oppure era troppo ambizioso per tacere. 

Lamborghini tornò mestamente a casa con un chiodo fisso in testa: riuscire a fondare un’azienda che producesse veicoli sportivi. A questo scopo riunì attorno a sé una squadra di tecnici e designer  

e cercò di realizzare il suo sogno. La sua azienda che produce automobili nasce ufficialmente nel 1963, grazie alla sua grande capacità imprenditoriale che gli consente di avere con sé anche molti dei migliori tecnici dell’epoca in campo automobilistico, tra i quali Giampaolo Dallara, Paolo Stanzani e Giotto Bizzarrini, stilisti dell’automobile e ingegneri di primo livello, che lo avrebbero portato a ottenere il successo che sperava di trovare. 

La prima vettura uscita dalla casa di Sant’Agata Bolognese fu la 350 GTV, una gran turismo a due posti veloce ed elegante, proprio come la voleva Ferruccio. La vettura però non ebbe il successo sperato poiché lo stile era troppo avveniristico per incontrare favori e perciò rimase un esemplare unico.

La prima auto in serie griffata Lamborghini fu quindi la 400 GT, versione rivista della 350 GTV e modificata in molti aspetti, compreso un aumento di cilindrata e un aumento di due posti a sedere; la vettura venne presentata nel 1966.

Nel frattempo negli uffici tecnici della casa del Toro si lavorava al prossimo futuro, infatti Giampaolo Dallara e Paolo Stanzani stavano creando quello che è a tutt’oggi un mito in tutto il mondo, la Lamborghini Miura. Nasce dalla mente di alcuni geni dell’automobile che volevano creare qualcosa di diverso, mai creato prima e ci riuscirono perfettamente perché realizzarono una Gran Turismo con un’unità termica montata in posizione posteriore centrale trasversale. Personaggi come Dallara e Stanzani sono forse i più grandi tecnici che il mondo abbia mai donato all’automobile, almeno per l’epoca. Il tocco finale lo diede un altro genio nostrano, un giovane Marcello Gandini, che per conto della carrozzeria Bertone di Torino realizzò questo capolavoro:

“Io sono quello che può fare la scarpa al tuo piede” disse Nuccio Bertone al grande Ferruccio.

 

Questa non è solamente una semplice automobile, è qualcosa di più, un netto segno di rottura con il passato. Il design della vettura fu  subito approvato da tutti in azienda; mai è stata realizzata una bozza di disegno di una vettura a cui non fu apportata nessuna modifica. In quel caso fu lasciato tutto com’era perché era semplicemente perfetta così.

Sono state veramente poche le auto in grado di cambiare il mondo dell’automobile come fece la Miura: con un motore V12 centrale e un corpo vettura davvero affascinante, la due posti della Casa del Toro ha ridefinito il concetto di auto sportiva. A riprova di ciò, al suo debutto, la Miura era l’auto più veloce del mondo: con una velocità massima di 280 km/h e un’accelerazione da 0 a 100 km/h in 6.7 secondi, la Lamborghini Miura stabilì nuovi standard nel segmento delle auto sportive, oltre ad essere una delle più belle automobili che la storia ricordi, con linee morbide e filanti, un retrotreno che scende su una coda pulita senza spigolature marcate. Praticamente paragonabile a una donna con l’abito da sera più elegante, che si fa ammirare senza fare rumore più di tanto.

Sotto il vestito si cela la massima espressione della meccanica applicata alle automobili, in quanto la vettura era dotata di una monoscocca in acciaio con una struttura centrale che si estendeva anteriormente e posteriormente con dei bracci scatolati trapezoidali che terminavano all’altezza delle sospensioni. I due elementi più esterni erano raccordati longitudinalmente da bracci in acciaio, per garantire una maggior rigidità strutturale. L’unità motrice, installata in posizione posteriore centrale, è un V12 di 4.0 litri con 320 CV, con il basamento che incorpora anche la campana del cambio in un’unica fusione. Sospensioni di primo livello, doppi triangoli all’avantreno e al retrotreno con barra antirollio.

Il nome Miura fu scelto personalmente da Ferruccio che volle chiamarla così in onore dell’allevatore spagnolo di tori da combattimento Don Eduardo Miura Fernandez. La vettura fu realizzata in molte versioni negli anni di produzione che vanno dal 1966 al 1973, in 763 esemplari totali.

Tre esemplari su tutti verranno ricordati per sempre perché legati a una storia particolare: vennero costruiti nel 1970, nati dall’idea di un ingegnere neozelandese che arrivò in Italia per lavorare presso la casa di Sant’Agata Bolognese. Appassionato, schietto ed eccentrico, si dedicò al lavoro di collaudatore, il suo nome è Bob Wallace. Capì subito le potenzialità della Miura e volle costruire un esemplare laboratorio per studiare poi una versione corsaiola, non tenendo in considerazione il pensiero di Ferruccio, il quale non voleva le corse. Nacque così la Lamborghini Miura SVJ, Super Veloce Jota.

A questo modello Wallace dedicò le sue nottate, compresi sabato e domenica. Ne uscì fuori un capolavoro, non lasciando nulla al caso. Rispetto al modello originale sostituì il telaio con uno più rigido su cui vennero montate sospensioni da competizione e freni a disco autoventilanti. Il propulsore V12 venne potenziato da 370 a 440 cavalli a 8500 giri/min; alcuni elementi della carrozzeria vennero sostituiti con pannelli in Avional rivettati e qualunque componente superfluo venne rimosso, anche negli interni. Lo scarico era artigianale, vennero modificati i gruppi ottici anteriori, i pneumatici erano Dunlop da competizione, i passaruota vennero allargati a mano per ospitare ruote con maggiore larghezza. Peso totale dell’auto: 890 kg, carrozzeria colore Rosso Granada.

Questo esemplare venne venduto ad un cliente che lo distrusse irrimediabilmente in un incidente. Alcuni acquirenti ne chiesero una piccola produzione e la casa del Toro acconsentì costruendo ufficialmente tre SVJ.

Uno di questi esemplari a luglio è stato messo in vendita da Kidston, di Simon Kidston, un’importante collezionista e venditore di auto di prestigio o, per meglio dire, uno tra i maggiori “classic car dealer” a livello mondiale. Possiede questa società che si occupa di trattative tra chi possiede le più belle auto del mondo e chi può permettersi di acquistarle, o vuole venderle con discrezione. Kidston SA si è occupata della gestione dell’acquisto di questo esemplare nel 2010, supervisionando il restauro che ha restituito alla Miura SVJ l’originale colorazione Rosso Granada. L’operazione ha richiesto tre anni di lavoro, affidato per la meccanica all’ex ingegnere Lamborghini Luca Savioli di Top Motors e per la carrozzeria e la verniciatura a Pietro Cremonini. Il suo valore commerciale può superare i quattro milioni di euro.

Fascino e sportività, uno spettacolo assoluto.

Pillole di automotive

Da anni si parla sempre di più di sostenibilità ambientale, si cerca in ogni modo di rendere il più possibile giovane e verde il nostro pianeta. Gli esseri viventi sono i polmoni del mondo, quindi per vivere bene dobbiamo salvaguardare il più possibile il nostro pianeta Terra, nel migliore dei modi. Molti fattori incidono sull’inquinamento ambientale e, siccome in parte ognuno ha le sue colpe, dobbiamo concentrare tutti insieme gli sforzi per avere un mondo più pulito possibile. Nel settore automotive, si stanno cercando diverse strade per abbattere questo problema. Una su tutte quella dei veicoli elettrici, seguono poi importanti ricerche sull’idrogeno. I veicoli elettrici sono il futuro, ma i veicoli con un’unità motrice a combustione interna non scompariranno presto, motivo per cui i carburanti sintetici potrebbero fornire un’opzione più ecologica per la stragrande maggioranza delle auto in circolazione oggi, per potergli permettere di circolare con tutta tranquillità inquinando meno possibile. Obiettivo principale: abbattere le emissioni di anidride carbonica, quindi CO2.

Di fatto esistono attualmente due modi per ridurre o eliminare le emissioni di anidride carbonica:

1. Il motore elettrico, che non utilizza combustibili; di conseguenza non  genera nemmeno CO2. Questo ha senso solo se l’elettricità utilizzata per la propulsione proviene da fonti rinnovabili prive di CO2.

2. I carburanti sintetici o biogeni, i cosiddetti eFuel. Un’auto alimentata con eFuel emette sì CO2 localmente, ma solo nella stessa quantità immagazzinata nel carburante per la sua produzione. Anche in questo caso, però, l’energia deve provenire da fonti rinnovabili prive di CO2.

Tra le aziende che stanno investendo e sviluppando maggiormente questo prodotto, Porsche è senza dubbio una di quelle più attive ma è lungi dall’essere la prima a dedicarsi alla ricerca sui carburanti sintetici. Audi, Bosch e McLaren parlano e lavorano sulla tecnologia da anni.

Gli eFuel che Porsche sta testando utilizzano ingredienti CO2 e idrogeno e sono realizzati utilizzando energia rinnovabile, che riduce significativamente le emissioni di gas serra rispetto ai combustibili a base di petrolio. Infatti possono rendere più sostenibile la guida dei veicoli esistenti, affermando che possono rendere un motore a combustione interna pulito come un veicolo elettrico.

Il risultato finale è un liquido che un motore brucerà come se fosse benzina ricavata dal petrolio greggio, ma un eFuel può essere prodotto in maniera climaticamente neutrale, almeno in teoria. Parlando al recente lancio della nuova 911 GT3, il vicepresidente Porsche di Motorsport e GT, Frank Walliser, ha affermato che l’azienda avrà il suo primo piccolo lotto di prova, 130.000 litri di eFuel, pronto entro il 2022.

“Il carburante sintetico è più pulito e non c’è sottoprodotto, e quando inizieremo la piena produzione prevediamo una riduzione di CO2 dell’85%”, ha affermato Walliser. Se vediamo in una prospettiva “dal pozzo alla ruota” si deve considerare l’impatto dal pozzo alla ruota di tutti i veicoli, e noteremo che si avrà lo stesso livello di CO2 emesso nella produzione e nell’uso di un veicolo elettrico.

Uno dei grandi vantaggi di eFuel è che puoi pompare in un veicolo a benzina standard senza dover apportare modifiche al motore. L’eFuel di Porsche non è pensato solo per i veicoli stradali. La nuovissima Porsche 911 GT3 Cup da competizione può funzionare con carburanti sintetici, che secondo Porsche riducono significativamente le emissioni di CO2 in condizioni di gara.

“Questa tecnologia è particolarmente importante perché il motore a combustione continuerà a dominare il mondo automobilistico per molti anni a venire”, ha affermato in una dichiarazione a settembre Michael Steiner, membro del comitato esecutivo per la ricerca e sviluppo di Porsche. “Se si vuole far funzionare la flotta esistente in modo sostenibile, gli eFuel sono una componente fondamentale.”

Come detto, Porsche non è la prima casa automobilistica a indagare sui carburanti più puliti sostitutivi del petrolio. Audi, infatti, ha prodotto il suo primo lotto di e-diesel nel 2015, ad esempio, e Bentley, Mazda e McLaren hanno dato giudizi positivi sui carburanti sintetici. Nel frattempo Mercedes-Benz ha preso una posizione opposta, dal momento in cui il capo della ricerca e sviluppo Markus Schäfer nel 2020 ha dichiarato, alla rivista britannica Autocar, che l’e-fuel non è un’opzione praticabile e che la casa automobilistica si sta concentrando esclusivamente sull’elettrificazione.


Allo stesso modo, l’ E85, un sostituto della benzina senza emissioni di carbonio realizzato con l’85% di etanolo a base di mais, è stato promosso negli Stati Uniti dagli anni ’90, con oltre 100 modelli compatibili con E85 venduti da allora, dalla Mercedes- Benz CLA 250 alla Chrysler 300, dalla Chevrolet Impala alla Ram 1500.

La spinta di Porsche verso la sostenibilità ha fatto un altro grande passo avanti con l’annuncio che il suo impianto di produzione di eFuel nella Patagonia cilena ha ora aperto la strada a molti altri costruttori e aziende petrolchimiche. La sfida della decarbonizzazione per l’industria automobilistica è grande e complicata, ma Porsche crede fermamente che gli eFuel faranno parte della soluzione, oltre all’elettrificazione e alle tecnologie dell’idrogeno.

Il progetto dovrà essere effettuato in larga scala industriale, affinché i combustibili a emissioni zero diventino una parte praticabile dei suoi piani di decarbonizzazione. In breve, la casa di Zuffenhausen ritiene che i carburanti rispettosi dell’ambiente, ovvero quelli che catturano una parte delle emissioni legate alla loro combustione nel loro processo produttivo, possano prolungare la vita dei veicoli con motore a combustione.

Per fare ciò ha collaborato con il colosso tecnologico tedesco Siemens nello sviluppo del progetto e prevede una crescita esponenziale della capacità nei prossimi cinque anni, arrivando a produrre fino a 550 milioni di litri all’anno entro il 2026.


Il carburante stesso sarà inizialmente utilizzato per mezzi interni nella gestione delle auto da corsa e storiche a combustione di Porsche dal 2022, ma il marchio prevede di vendere i suoi carburanti ecologici ai consumatori a lungo termine. Ciò consentirà ai proprietari di Porsche di tutto il mondo di accedere ai carburanti per i loro modelli con motore a combustione, indipendentemente da come cambia la fornitura di benzina e diesel tradizionali, poiché il suo utilizzo nei veicoli privati verrà ridotto dopo il 2030.

Gli investimenti nella tecnologia dell’eFuel o dei combustibili sintetici sono stati presi in considerazione da molti produttori in una certa misura; questa soluzione ha lasciato un ulteriore campo aperto nella gamma di misure esplorate per affrontare la crisi climatica. Sebbene sia difficile da comunicare al grande pubblico, Porsche ritiene che la tecnologia giocherà un ruolo importante in futuro, spiegando il desiderio di investire così tanto in questo progetto. Se porta la casa tedesca a ottenere il controllo finale su una risorsa che le altre case automobilistiche non hanno mai avuto bisogno di considerare prima, potrebbe rivelarsi denaro ben speso.
Inoltre, come si sa, il maggior campo di sviluppo nel settore automotive è la Formula 1, il miglior laboratorio di esperienza del mondo. Le soluzioni studiate dalle squadre vengono poi con il passare del tempo trasmesse sulle strade di tutti i giorni, un transfer tecnologico invidiabile.
Alla fine dello scorso anno, la FIA, il massimo organismo della Federazione Automobilistica Sportiva a livello mondiale, ha annunciato l’uso dei biocarburanti E10 in Formula 1 a partire dal 2022, ma il prossimo passo verso la riduzione dell’impronta di carbonio della F1 avrà un approccio molto più ampio. La F1 ha annunciato di puntare all’uso all’ingrosso di carburanti sintetici entro il 2025, collaborando con produttori e società energetiche per sviluppare e produrre in serie biocarburanti che contribuiranno all’obiettivo di zero emissioni di carbonio della F1 entro il 2030.

Questi combustibili saranno fabbricati con tecniche che incorporano metodi di cattura del carbonio, rifiuti urbani o biomassa nella loro produzione, compensando parte del carbonio emesso quando viene bruciato all’interno di un’unità motrice di F1. Il carburante sarà “drop-in”, il che significa che i propulsori non richiedono modifiche specifiche per essere compatibili, abbinando anche la densità di energia dei carburanti da corsa ad alto numero di ottani di oggi.

Non ci resta che attendere…staremo a vedere.

Pillole di automotive

Ci sono cose di cui l’uomo è sempre stato affascinato, vedi il mito di Icaro o andare nello spazio. C’è un tema però che affascina le persone più di ogni altra cosa: la ricerca della velocità, l’ebbrezza e le sensazioni che si provano nell’andare sempre più veloce e nel mettersi in competizione. Così è stato per anni e così continuerà ad essere sempre.

Ci sono persone che hanno accolto più di altri questa sfida: non solo piloti, non sono meccanici, sono ingegneri.

Per loro non è solo lavoro, è passione, ricerca, è sviluppo per migliorare la performance, per creare qualcosa che non c’è.

La tecnologia automobilistica si è sempre per lo più sviluppata sulle auto da competizione, per testarne efficacia, durata e consistenza. Solo successivamente tali soluzioni se superano questo importante banco di prova vengono poi trasmesse sulle auto stradali in produzione.

Intorno al 1920 il mondo delle automobili era ancora agli antipodi, le fabbriche non avevano la manovalanza che hanno ora, ma avevano menti

sapienti che hanno creato soluzioni e idee in voga ancora oggi. Una di queste menti era senza ombra di dubbio Vittorio Jano, uno dei più grandi progettisti che l’Italia abbia mai avuto. Con il suo tecnigrafo ha realizzato veri e propri capolavori di arte contemporanea che rimarranno per sempre nella storia.

Vittorio Jano (Victor Jànos il suo nome di battesimo per via delle sue origini ungheresi) nasce a San Giorgio Canavese, in provincia di Torino, il 22 aprile del 1891.

Le sue doti furono subito notate da molti esperti del settore. Appena diplomato venne assunto in un’azienda come apprendista, ma solo per poco tempo. Successivamente fu chiamato a lavorare per l’azienda che gli cambiò la vita: fu assunto dalla FIAT come disegnatore. Da lì in poi si fece conoscere e apprezzare in tutto il mondo; l’Italia si distingueva per la sua mente geniale. Il primo ad accorgersi del suo enorme talento fu Giulio

Cesare Cappa (noto per aver progettato la Bugatti Type 53), allora a capo dell’Ufficio Progetti, che lo volle al suo fianco. In quell’ufficio ebbe modo di imparare dai più promettenti tra gli ingegneri e i progettisti presenti in Europa, contribuendo in maniera fondamentale alla vittoria della FIAT 805/405 al Gran Premio d’Europa a Monza del 1923. In quell’occasione fu fondamentale l’intuizione di Jano di far correre le vetture torinesi con il compressore volumetrico Roots al posto del Witting. Tutto questo, unito a tante altre soluzioni innovative, fece scattare la molla nientemeno che a Enzo Ferrari. Egli capì il talento, le soluzioni intelligenti e la passione di Jano e volle a tutti i costi portare con sé nella sua scuderia colui che reputava il più grande progettista del mondo. C’era un ostacolo, però, da superare: la resistenza della FIAT. Ferrari, che in quel momento gestiva le Alfa Romeo che usava nelle competizioni automobilistiche, fece di tutto per assicurarsi Jano. Ci riuscì offrendogli uno stipendio raddoppiato, ma anche il sogno di costruire le auto più veloci del mondo. Fu così che Jano divenne nel settembre del 1923 il capo dell’Ufficio di Progettazione.

La prima vettura che sviluppò Jano per conto di Alfa Romeo fu la P2, che esordì nel Gran Premio di Lione il 3 agosto del 1924, non solo vincendo ma stravincendo sugli avversari. Distacchi abissali per tutti; al volante di quella vettura c’era il compianto Giuseppe Campari. La stagione andò avanti e proseguì con la doppietta del Gran Premio d’Italia disputatosi con la mitica sopraelevata. L’anno seguente la P2 a suon di successi permise all’Alfa Romeo di aggiudicarsi il titolo mondiale Costruttori. Fu un vero e proprio strapotere in quegli anni; infatti il 12 aprile del 1925 presso il Salone dell’Automobile di Milano fu presentata alla stampa la vettura a cui Vittorio dedicò giorno e notte: l’Alfa Romeo 6C 1500, una delle vetture che segnò la storia dell’automobilismo dell’epoca e una pietra miliare delle competizioni automobilistiche. Praticamente dominò in lungo e in largo qualsiasi gara a cui partecipò e nei concessionari ci fu il boom di auto vendute. Tutti i gentlemen di successo e tutte le persone facoltose volevano un’Alfa.

Alfa Romeo P2

Come dimenticare l’espressione di Henry Ford “Quando vedo passare un’Alfa Romeo tolgo il cappello”. Il miracolo era riuscito, la casa automobilistica del Portello entra di diritto nell’olimpo degli dèi, trascinata sempre più dal miglior progettista del mondo, da Ferrari che le faceva correre e dai suoi piloti per lo più Italiani che la facevano essere vincente, il connubio perfetto si era realizzato.

La peculiarità della 6c era il motore, cuore pulsante ed elemento indiscutibilmente identificativo della piccola di casa Alfa. Il propulsore a sei cilindri ideato da Jano era inizialmente dotato di basamento in alluminio e monoblocco e testata in ghisa ed era in grado di sviluppare 44CV a 4200 giri al minuto. Un’enormità per un motore così piccolo, almeno secondo gli standard dell’epoca. L’ideatore della 6C era talmente avanti che aumentò di circa il 200% la resa termica rispetto agli standard di allora.

Sarà però la sua erede, la 6C 1750, a consacrare definitivamente Jano. Diventerà un’auto di culto sin da subito, la vettura perfetta per tutti coloro che ricercavano la naturale fusione tra eleganza e potenza. Il sei cilindri passa a 1752 centimetri cubici e viene equipaggiato con un compressore volumetrico a lobi che permette di sviluppare 85 CV, che salgono a 102 nei sei esemplari cosiddetti “testa fissa”, con la testata fusa in blocco con i cilindri. C’era intorno a lui un clima di lavoro perfetto, tutti si fidavano delle sue scelte tecniche, delle sue trovate originali e sapevano che era la locomotiva giusta per trainare l’azienda.

Nel 1932 progettò un altro capolavoro dell’industria automobilistica: la P3.

Alfa Romeo P3

Le auto di allora soffrivano di un sovrasterzo cronico, propulsore anteriore, serbatoio vicino al pilota e quindi il peso non era perfettamente bilanciato. Jano però tirò fuori il suo solito coniglio dal cilindro ponendo il differenziale subito dopo il cambio, sfruttando due alberi di trasmissione obliqui e con due coppie coniche per trasmettere il moto al ponte posteriore: semplicemente geniale!

Questa vettura fece il suo debutto a Monza e vinse subito con l’indimenticabile Tazio Nuvolari. Con sette vittorie in stagione, Nuvolari e l’Alfa Romeo divennero campioni del mondo di Formula 1. Alla fine del 1933, con una decisione non proprio a sorpresa, la casa del Portello decise di ritirarsi dalle corse automobilistiche con la seguente frase: “Abbiamo mostrato al mondo quello che volevamo, di essere invincibili.” In realtà più che la sete di vittoria mancavano gli introiti; la crisi economica aveva travolto la casa automobilistica italiana che, insieme ad altre aziende importanti, veniva controllata in quel periodo dall’Istituto di Ricostruzione Industriale. Questo importante periodo storico fece cadere anche molte gerarchie interne: diverse teste saltarono, altre andarono via per evitare il peggio. Così fu messa in discussione anche la posizione di Vittorio Jano, quello che era considerato fino ad allora l’intoccabile. Ridimensionamento di incarichi e meno uomini di fiducia accanto fecero capire a Jano che il suo tempo nella casa del Biscione era terminato. Non prima però di realizzare il suo ultimo capolavoro. Infatti, al Salone dell’Automobile del 1934, presentò la 6C 2300.

Alfa Romeo 6C

Ma l’azienda in quel periodo aveva scommesso tutto su quella che era l’auto progettata dal suo migliore allievo: Gioacchino Colombo, la 158.

Il suo carattere, che poco faceva scendere a compromessi e che non dava modo di intraprendere una mediazione professionale, non andava proprio a braccetto con l’idea della politica aziendale. L’azienda deve a lui più di quanto si immagini; non fu solo un progettista, ma colui che aveva portato in alto l’Alfa Romeo, un luminare che aveva sconfitto la potenza tedesca contro ogni pronostico.

Chiusasi la parentesi milanese, Jano tornò nella sua amata Torino. Lo volle con sé la Lancia, che nel 1937 gli mise subito in mano le chiavi dei suoi studi di progettazione.

Non fece altro che dimostrare ancora di più il suo valore di tecnico in quanto dalla sua mente uscirono capolavori come le Lancia Ardea, Aurelia (sì proprio lei, quella azzurra del film “Il Sorpasso” con Vittorio Gassman) e Appia. Mentre Jano era nuovamente sulla cresta dell’onda, un avvenimento drammatico colpì la famiglia dell’ingegnere. Il figlio Francesco, appena ventenne, morì durante il servizio militare per una banale malattia ai polmoni. Da quel momento, il carattere dell’ingegnere torinese marcò sempre più le sue spigolature, portandolo a chiudersi in se stesso e nelle sue convinzioni.

Lancia Aurelia Spider

Nel 1951 la famiglia Lancia decise di riportare la sua azienda nel mondo delle corse automobilistiche, con Jano capoprogetto. Numerosi i successi in tutto il mondo, dalla B20 alla D20 fino alla D24 che sbaragliò gli avversari nella Carrera Panamericana nel 1953; le Lancia erano le auto più veloci del mondo. Nel 1954 per Lancia arrivò la Formula 1; per l’ingegnere torinese l’ultimo progetto.

Studiò la vettura in lungo e in largo, studi aerodinamici, ne curò la dinamica veicolo e fu parte integrante del discorso propulsore; tutto questo per creare la Lancia D50, capolavoro indiscusso di ingegneria meccanica. A dispetto del valido progetto, la D50 faticò non poco ad esprimersi. La situazione si complicò ancora di più perché Lancia economicamente non poteva permettersi spese folli per sviluppare l’auto, in più contrasti interni misero maggiormente in luce gli spigoli caratteriali difficili da smussare per Vittorio. La vettura era difficile da gestire in gara e il suo comportamento dinamico variava in base a diversi fattori; d’altronde era una vettura rivoluzionaria in tutto il suo essere e aveva bisogno di tempo per esprimere il suo massimo potenziale. Jano non fu capito e volontariamente si dimise da capoprogetto pur rimanendo come consulente. Ma di lì a poco si consumò ulteriormente anche questo rapporto e il tecnico torinese se ne andò.

Lancia Ferrari D50

Enzo Ferrari non si fece scappare l’occasione e chiamò a lavorare con sé l’ingegnere, nel ruolo di consulente tecnico. Mentre Jano andò via

accadde un fatto gravissimo, il pilota della Scuderia Ferrari Alberto Ascari morì il 26 maggio del 1955 sul circuito di Monza al volante di una Ferrari. Scossa dall’accaduto, la squadra Lancia si ritirò dalle competizioni e cedette l’intero materiale tecnico, vetture e ricambi, alla Scuderia Ferrari. La casa di Maranello continuò a sviluppare il progetto di Jano, tanto è vero che dopo numerosi accorgimenti tecnici la vettura cominciò a girare come un orologio svizzero. Fu così che nel 1956 Juan-Manuel Fangio si aggiudicò il mondiale di Formula uno con questa vettura ribattezzata Lancia-Ferrari D50. Un’altra creatura dell’ingegnere torinese risultò vincente. La collaborazione con Ferrari era speciale, i due avevano un rapporto pressoché fraterno, accomunato anche dalla stima reciproca, tanté che il loro rapporto di lavoro andò avanti fino al 1965.

Un mattino di marzo, precisamente il 13 marzo 1965, nella sua casa di Torino Vittorio Jano si suicidò con un colpo di pistola sul letto della sua stanza. Fu trovato morto da sua moglie. Ancora soffriva per la morte prematura di suo figlio, in più gli era stato diagnosticato un tumore. Fece a modo suo. Se ne andò da vincente come sempre, per paura di cadere in un baratro dove non sarebbe più stato in grado di decidere per se stesso.

«Ha vissuto da forte e da forte ci ha lasciato. Non fui stupito della ferrea coerenza con la quale concluse la sua esistenza, e gli ho ammirato anche quel gesto, che considero di supremo coraggio.»

Fu questa la reazione di Enzo Ferrari appena saputa la triste notizia.

Lo accettiamo così, con un carattere non facile, ma con una visione delle cose che alla lunga si è dimostrata veritiera. Ha lasciato al mondo auto simbolo, patrimonio di tutti noi.

Vittorio Jano, genio e sregolatezza.

Pillole di automotive

Il punto della situazione

Si discute molto sull’effettiva eco-sostenibilità dei veicoli alimentati a trazione puramente elettrica, non tanto riguardo le emissioni durante la sua marcia su strade aperte al traffico, che come sappiamo è pari a zero, quanto durante il suo ciclo produttivo così come nell’intero ciclo di vita.

In sintesi, i limiti difficilmente superabili di questo tipo di mobilità sono la produzione di batterie legata a Paesi extraeuropei quasi esclusivamente occidentali e quindi il trasporto dall’occidente all’Europa e nel resto del mondo.

Inoltre, se pensiamo di avere una grande diffusione di EV dobbiamo rivedere tutte le infrastrutture dalla produzione di energia all’utilizzo per la ricarica.

In Italia e nel mondo produciamo basse quantità di energia elettrica da fonti rinnovabili, quindi quello che risparmiamo di Co2 in emissione pura del veicolo viene immesso nell’aria dalla maggiore produzione di energia elettrica, che è legata principalmente a centrali alimentate da combustibili fossili.

Ultimo problema da non trascurare, ma non in ordine di importanza, è lo smaltimento di suddette celle EV alla fine del loro ciclo vitale.

Come verranno stoccate e smaltite in futuro le batterie esauste per evitare un impatto ambientale?

Due persone su tutte hanno analizzato queste e altre problematiche relative alle auto puramente elettriche, mettendone in discussione l’impiego:

  • Akyo Toyoda, CEO di Toyota, primo produttore di veicoli al mondo;
  • Franz Fehrenbach, amministratore di Bosch Automotive.

Sarebbe più semplice prevedere la diffusione di EV nell’ambito prettamente cittadino, ma per veicoli che hanno bisogno di fare tanti chilometri al giorno risulta un vincolo non facilmente superabile.

Pertanto, la soluzione sembra essere già tecnicamente disponibile: alimentare i veicoli con carburante alternativo, cioè l’idrogeno con il sistema FUEL CELL.

Vediamo nel dettaglio il suo principio di funzionamento: un veicolo alimentato ad idrogeno è sostanzialmente un veicolo elettrico che però non viene alimentato da batterie agli ioni di litio, bensì da pile di combustibile (da quì deriva il nome fuel cell) e da un serbatoio di idrogeno.

Il funzionamento di una cella a combustibile si basa su una reazione elettrochimica in cui le molecole del combustibile si separano in ioni positivi e negativi. Questi ultimi transitano in un circuito in modo da creare una corrente elettrica.

L’idrogeno è particolarmente adatto a questo scopo, poiché il legame tra i suoi atomi è relativamente debole.

Per far si che avvenga questa reazione elettrochimica è necessario l’ossigeno che viene prelevato dalla parte frontale del veicolo tramite delle prese d’aria.

La corrente prodotta dalla correlazione tra idrogeno e ossigeno va poi ad alimentare un motore elettrico di trazione.

I prodotti di scarto sono il calore e semplicemente l’acqua.

Infatti, combinando chimicamente idrogeno (H2) e ossigeno (O) si ottiene acqua (H2O), che viene rilasciata tramite il tubo di scarico.

Il grande vantaggio di questo processo è che si può ottenere elettricità dalla combinazione di idrogeno e ossigeno, senza alcun tipo di processo di combustione.

Quindi questi veicoli, chiamati anche FCEV (Fuel Cell Electric Vehicle) non fanno altro che produrre energia elettrica per trasformarla in energia meccanica.

Tutto avviene, come detto in precedenza, facendo reagire l’idrogeno che è presente nei serbatoi ad alta pressione con l’ossigeno.

Questo processo avviene nella pila di combustibile.

Una volta prodotta energia elettrica questa viene immagazzinata nelle batterie, che sono molto più piccole delle EV tradizionali.

Un motore elettrico poi trasmette energia meccanica alle ruote.

Così facendo l’auto è il generatore di se stessa.

Questi gli aspetti positivi:

  • i serbatoi di ultima generazione garantiscono una percorrenza chilometrica di almeno 500/600 km con un pieno;
  • è possibile riqualificare gli attuali distributori, che potrebbero essere in grado di stivare o addirittura produrre idrogeno da trazione;
  • è possibile alimentare veicoli a idrogeno che in alcuni casi sarebbe impossibile far circolare in EV puro, perché avrebbero bisogno di grandi batterie (sono un esempio gli autobus per il trasporto pubblico e i mezzi di trasporto pesanti di vario tipo).

Con questo sistema ci sarebbe un’evoluzione concreta di tutto il settore automotive, senza avere problemi di produzione di altra energia dalle centrali.

Anche i serbatoi hanno avuto una considerevole evoluzione nel corso degli anni per una questione di sicurezza, visto che l’idrogeno vi è immagazzinato a 700 bar.

La casa automobilistica che investe da più tempo risorse ed energie verso questo settore è la Toyota, costruendo anche serbatoi di nuova concezione chiamati COPV (composite overwrapped pressure vessel). La loro resistenza è data da una struttura in fibra di carbonio su cui è stato posato uno strato in fibra di vetro. Qualora il veicolo dovesse essere coinvolto in un sinistro, gli eventuali danni arrecati al serbatoio sarebbero visibili sullo strato più esterno, che quindi ha il compito di accertarne l’integrità. L’intero serbatoio è poi rivestito con del materiale polimerico per sigillarlo.

Nessun veicolo o sistema di alimentazione è sicuro al 100%, ma con la ricerca e lo sviluppo si cerca di avvicinarsi il più possibile alla perfezione.