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Giugno 2021

Per gli operatori

Dopo un ventennio di convegni a Genova, la città che ospiterà l’edizione 2021 del consueto meeting del settore revisioni sarà Bologna, decisamente più comoda da raggiungere da tutta Italia. Cambiano anche gli organizzatori: CNA Autoriparazione molla il colpo a favore di ASSO.Car, l’associazione nazionale dei centri di controllo. E finalmente l’adeguamento ISTAT della tariffa di revisione, argomento che bene o male riecheggia in ogni riunione da dieci anni a questa parte, diventa il punto centrale dell’ordine del giorno. Luca Donna, presidente di ASSO.Car, mostrerà passo-passo l’iter che ha consentito all’associazione che rappresenta di raggiungere questo grande risultato. Con la Legge di Bilancio pubblicata in Gazzetta Ufficiale il 31/12/2020 infatti il passaggio dagli attuali 45€ a 54,95€ è deliberato, ma mancano i soliti provvedimenti attuativi per rendere operativa la novità: ci sarà modo di approfondire e discuterne. Si parlerà anche dell’ormai imminente recepimento della Direttiva 2014/45ue, in particolare del principio di terzietà che segnerà il definitivo allontanamento del settore del controllo tecnico da quello dell’autoriparazione, un requisito fondamentale per garantire l’indipendenza e l’imparzialità durante l’effettuazione delle revisioni. Come verrà attuato, ma soprattutto, chi garantirà che questa trasformazione non sarà fittizia ed aggirabile con un semplice cavillo burocratico? In ultimo il problema delle qualifiche di ispettore (modulo A+B) ed ispettore veicoli pesanti (modulo C): dopo due anni dall’erogazione dei primi corsi in ottemperanza alle norme comunitarie manca un decreto Mims che istituisca modalità e commissioni d’esame, un ritardo che penalizza tutti gli addetti ai lavori. Un breve intervento commerciale a cura di Moreno Mazzini (Startest/HPA) e poi la parola al grande Andrea Da Lisca che, come di consueto, parlerà di numeri: proiezioni di mercato e soprattutto un’analisi dell’impatto nel tempo delle proroghe che da ormai 18 mesi rinviano le scadenze. Segue un’altra analisi economico/finanziaria sui bilanci delle imprese a cura di Silvano Guelfi del Politecnico di Torino e per concludere un’intervento istituzionale.

Tutto questo dalle 16:00 alle 18:00 di Sabato 17 Luglio 2021 presso l’Hotel Tower di Bologna, ma attenzione: i posti sono limitati! Per prenotare è necessario scaricare il modulo (clic qui), compilarlo e recapitarlo via mail all’indirizzo: info@asso-assocar.it

Noi ci saremo, e voi?

Per gli operatori

2014/45UE: per molti speranza, per altri terrore. Anzi, per tanti – tantissimi – terrore, per pochi speranza. La 2014/45UE è la direttiva europea che abroga la precedente direttiva 96/96CE, il fondamento degli ultimi venticinque anni di revisioni ministeriali, o controlli tecnici per utilizzare un termine più europeo. No, non è colpa della 96/96CE se in Italia è andato tutto a rotoli: le basi erano buone, ma nel bel paese non hanno attecchito (o non le hanno volutamente fatte attecchire). Prima di addentrarci nella questione però, è utile spendere un paio di paroline su cosa sono le direttive comunitarie e sul perchè vengono promulgate, tanto per evitare i soliti avvocati da social network.

Marcatura UNECE (E3) su fanale posteriore Fiat 500

Uno dei principi fondanti dell’Unione Europea è la libera circolazione di persone e merci – quindi veicoli – che per essere attuata concretamente presuppone un processo di uniformazione delle omologazioni di veicoli, dei controlli tecnici, delle norme sulla circolazione stradale e via dicendo. Questo iter ha già raggiunto uno stadio avanzato, basti pensare che già negli anni anni 70 le auto erano equipaggiate con dispositivi approvati dall’UE oppure dall’UNECE, la Commissione Economica per l’Europa delle Nazioni Unite. Quanto al termine “direttiva”, abusato e snaturato, attenzione a non farsi ingannare dal significato secondo il vocabolario italiano: direttiva, seguito dall’aggettivo europea, non significa certo “linea guida dall’Europa”. E’ una fonte di diritto, è legge, che però acquisisce valore giuridico dopo il recepimento mediante atti nazionali, un passaggio obbligatorio per ogni Stato membro entro un termine prefissato. Il meccanismo è questo, da sempre, ma ciò che si è evoluto negli anni è l’entità e la portata delle norme. E’ ragionevole: se in principio era sufficiente fissare qualche semplice regola comune, come ad esempio frequenza ed oggetto dei controlli, con la progressiva armonizzazione si punta sempre più in alto, aggiungendo obbiettivi più specifici ed ambiziosi. Per avere una proporzione, la prima direttiva volta ad uniformare il controllo tecnico fra stati membri (77/143CEE del 29 Dicembre 1976) contava 5 pagine, la 96/96CE del 20 Dicembre 1996 19 mentre la 2014/45UE del 3 Aprile 2014 78. Le pagine introduttive, quelle dei cosiddetti “considerando”, non hanno valenza giuridica in quanto giustificano la norma definendone gli obbiettivi a breve – lungo termine. Obbiettivi che fanno paura, soprattutto agli imprenditori che hanno la sfortuna (o fortuna?) di aver fatto impresa in uno Stato che non si è mai curato minimamente del resto dell’Unione.

Nel 1976 si parlava di “attuare una politica comune di trasporti”, “di migliorare le condizioni dei veicoli circolanti in territorio UE”, “di armonizzare scadenze e metodi di controllo”…tutte finalità dai termini indefiniti e dalla sostanza quasi utopica. Il grande sogno dell’UE: a chi non piacerebbe un’Europa senza frontiere, di pace e prosperità? Bello, davvero bello, finchè i nodi non arrivano al pettine. E arrivano senz’altro quando unisci sotto un’unica bandiera paesi con differenze abissali dal punto di vista culturale. Eccoci arrivata agli albori della 96/96CE, quando l’Italia truffò l’Unione Europea grazie alla spinta delle lobby degli autoriparatori e dei rispettivi amici in politica. – No, non è complottismo, è andata esattamente così. –  

“Il controllo tecnico previsto dalla presente direttiva deve essere effettuato dallo Stato a da organismi a vocazione pubblica incaricati di tale compito oppure da organismi o impianti da esso designati, di natura eventualmente privata, debitamente autorizzati e che agiscono sotto la sua diretta sorveglianza. Quando impianti designati quali centri di controllo tecnico dei veicoli operano anche come officine per la riparazione dei veicoli, gli Stati membri si adoperano in modo particolare affinché siano garantite l’obiettività e l’elevata qualità di tali controlli.” [Direttiva 96/96CE – Art.2]

Il legislatore fu abile nello sventare agilmente ogni possibilità di rendere il controllo tecnico qualcosa di socialmente utile, redditizio per le casse dello Stato e soprattutto efficiente, nell’interesse di tutta la comunità. Potenziare il servizio pubblico oppure regalare un business agli amici privati? Non c’è nemmeno da pensare: la B senza ombra di dubbio, nel modo più spudorato. Un’opzione sì contemplata dall’UE, ma con riserva: masochismo puro, soprattutto per la stabilità delle imprese nel tempo. La strada della privatizzazione era infatti subordinata alla vigilanza pubblica, in particolar modo se l’attività fosse associata all’officina, un requisito che l’ordinamento italiano fissa per l’apertura del centro revisioni. Una scelta poco lungimirante, nel perfetto stile nazionale, della serie – finche si può mangiare mangiamo, poi si vedrà -. Ampiamente prevedibile, prima o poi, un ulteriore inasprimento delle regole fissate dall’Unione Europea, un rischio concreto se si considera il modello scelto in partenza, già di per se borderline. E il conto da pagare arriva sempre: ecco la direttiva 2014/45UE che al considerando n.34 reca testuali parole:

“È opportuno che gli ispettori, durante l’effettuazione dei controlli, agiscano in modo indipendente e che il loro giudizio non sia condizionato da conflitti di interesse, compresi quelli di natura economico o personale. È opportuno che il compenso degli ispettori non sia direttamente collegato ai risultati dei controlli tecnici. Gli Stati membri dovrebbero poter prescrivere requisiti in materia di separazione delle attività o autorizzare un organismo privato a effettuare i controlli tecnici e le riparazioni di veicoli, anche sullo stesso veicolo, qualora l’organo di controllo abbia accertato positivamente che resta mantenuto un elevato livello di obiettività.”

Blackout generale. Chiunque si è reso conto dell’inattuabilità del principio di terzietà nel sistema revisioni nazionale, ma ancora una volta si ragiona all’italiana. Il “considerando”, come premesso, non ha valenza giuridica e questo escamotage viene cavalcato per mantenere lo status-quo, ma per quanto ancora si potrà fare finta di niente? Dopo la mobilitazione iniziale la questione è infatti finita nell’oblio, complice un decreto di recepimento nazionale insipido e la totale mancanza di decreti attuativi. Ancora una volta, in perfetto stile italiano, nessuno vuole assumersi la responsabilità della distruzione del sistema revisioni che ad oggi conta più di 9000 imprese. Siamo nel 2021 e nulla è cambiato, ma in ambiente UE si parla ancora una volta di indipendenza. In data 27 Aprile 2021 il Parlamento Europeo ha infatti approvato, quasi all’unisono, la risoluzione che ha come oggetto “l’attuazione degli aspetti di sicurezza stradale del pacchetto controlli tecnici”(link) . Di seguito il punto 19:

“19.  ribadisce la necessità di adottare misure volte a garantire l’indipendenza degli ispettori e degli organismi di controllo dal settore del commercio, della manutenzione e della riparazione dei veicoli, al fine di evitare conflitti di interesse finanziari, anche per quanto riguarda il controllo delle emissioni, fornendo nel contempo maggiori garanzie in termini di responsabilità civile per tutte le parti;”

La risoluzione UE non ha valenza giuridica, ma si può considerare una manifestazione di intento per i futuri regolamenti e direttive. Una sorta di punto della situazione tra le fila del parlamento europeo, una fra le più importanti istituzioni a livello comunitario. Rimane da capire per quanto ancora il Ministero dei Trasporti, che cambia continuamente nome ma non sostanza, voglia fare orecchie da mercante, disinteressandosi di 9000 imprese, di oltre 20000 ispettori e, soprattutto, della sicurezza stradale collettiva. Il conto, prima o poi, lo pagheremo tutti: più passa il tempo, più sarà salato.

Tecnica

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Diego Brambilla, ispettore della revisione ministeriale, fornisce alcune indicazioni in merito alla presenza o meno delle frecce su motocicli e ciclomotori. Prima di addentrarsi nell’argomento, è utile capire cosa sono gli indicatori di direzione secondo la normativa automotive. L’articolo 72 del Codice della Strada D.Lgs 285/92 disciplina i dispositivi di equipaggiamento dei veicoli tra i quali rientrano gli pneumatici, i silenziatori di scarico, i dispositivi retrovisori, di segnalazione acustica e di illuminazione e segnalazione visiva. Gli indicatori di direzione appartengono all’ultima categoria, al pari dei proiettori, dell’illuminazione della targa, delle luci di posizione, di arresto, dei catadiottri e di altri segnalatori facoltativi per alcune tipologie di veicoli. Il comma 10 del succitato articolo prescrive che qualora i dispositivi fossero già oggetto di direttive comunitarie oppure regolamenti UN/ECE, tutte le prescrizioni in materia fanno caso ad essi. La prima direttiva europea a disciplinare i dispositivi di segnalazione ed illuminazione visiva per i motoveicoli è la 93/92 cee che si applica in tutti gli stati membri non oltre al 1° Novembre 1995. Prima di tale data faceva fede la normativa nazionale, il vecchio codice della strada D.P.R. 393/59, ma più precisante il regolamento di attuazione, D.P.R. 420/59. L’articolo 197 infatti disciplinava gli indicatori di direzione, obbligatori per “motoveicoli a tre ruote simmetrici” (tricicli L5e) autoveicoli, filoveicoli e rimorchi. Pertanto, fino al 1° Novembre 1995, un motociclo o un ciclomotore poteva ottenere l’omologazione del tipo anche senza installati gli indicatori di direzione, ma attenzione alla parola chiave: ” omologazione “. Il regolamento di attuazione al codice della strada, al pari delle direttive europee, prescrivono i requisiti minimi per ottenere l’omologazione del veicolo, non sono certo linee guida rivolte ai motociclisti per la customizzazione dei propri veicoli. Come fare dunque a capire se un motociclo o ciclomotore nasce senza frecce? Prima del 1 Novembre 1995 è purtroppo impossibile in quanto sulla carta di circolazione non è riportata nessuna indicazione. L’unico strumento che potrebbe supportare le autorità incaricate al controllo del veicolo, ispettori della revisione e forze dell’ordine, è la scheda tecnica di omologazione che riporta tutte le caratteristiche del prototipo approvato. Purtroppo questi documenti non sono di dominio pubblico, ma sono proprietà della Motorizzazione Civile e del costruttore o l’importatore che ha richiesto l’omologazione. Ad ogni modo, a partire dal 1° Novembre 1995, non c’è più spazio per equivoci, ma occorre distinguere i ciclomotori dai motocicli. Infatti la direttiva 93/92 CEE impone l’obbligo della presenza degli indicatori di direzione per i motocicli, ma non per i ciclomotori sui quali tuttavia vengono installati dal costruttore. Attenzione però, il fatto che tali dispositivi siano facoltativi sui ciclomotori non significa che l’utente è libero di eliminarli: ogni modifica rispetto al prototipo approvato in fase di omologazione deve essere approvata con visita e prova. A partire dagli anni 90 comunque la quasi totalità dei ciclomotori, per costruzione, montava gli indicatori di direzione, fatto salvo qualche caso atipico come il Piaggio Ciao Euro 2 uscito di produzione nel 2004. Si conclude ricordando che l’unica libertà per i motociclisti è quella di sostituire gli indicatori originali con degli equivalenti di tipo omologato che riportano il marchio composto da una e, maiuscola o minuscola, seguita da un numero che identifica il paese europeo che ha approvato il dispositivo. Non è richiesta visita e prova in questo caso, ma attenzione alle prescrizioni di installazione, contenute sempre nella direttiva 93/92CEE. I dispositivi devono essere 4, due da ciascun lato, posizionati simmetricamente sul veicolo. La distanza reciproca fra dispositivi è di 240 mm per gli anteriori, 180 per i posteriori. L’altezza da terra minima è invece di 350mm, massima di 1200mm. Vanno inoltre rispettate le condizioni di “visibilità geometrica” prescritte negli allegati alla direttiva per consentire ai dispositivi di essere visibili ad una determinata angolazione.

Curiosità: Alcune moto che si prestano particolarmente all’uso sportivo quali motard oppure trial, vengono progettate con un impianto elettrico modulare che consente di staccare i servizi (luci, indicatori di direzione e così via) qualora il veicolo venga utilizzato su strade private oppure in competizioni. Durante la circolazione su strada il veicolo deve comunque essere conforme al prototipo approvato durante la fase di omologazione, che se avvenuta dopo il 1° Novembre 1995, prevede l’obbligo di installazione degli indicatori di direzione.

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